Il 19 aprile 1942, in piena II Guerra mondiale, una nave inglese - l’incrociatore HMS Edinburgh - giunge nel porto sovietico di Kola, Mare di Barents e dopo due settimane, il 28 aprile, riparte come scorta ad un convoglio denominato PQ11. Per la nave sarà l’ultimo viaggio, quello fatale, dal quale nascerà il mito di uno dei tesori perduti e dei recuperi sottomarini più incredibili del XX secolo.
L’Edinburgh, infatti, durante quel viaggio svolge un ruolo estremamente delicato, quello di “cassaforte galleggiante” per l’oro con cui l’Unione Sovietica compensa i generosi aiuti degli Alleati. Se, infatti, il Regno Unito beneficia pienamente della famosa Lend and Lease Act e ha diritto di acquistare materiali bellici e materie prime dagli Usa con pagamento alla fine della guerra, garantendosi grazie alle riserve auree della Bank of England, l’Unione Sovietica è vista come un alleato al quale non concedere troppe facilitazioni e, soprattutto, dal quale pretendere – in virtù delle riserve d’oro di cui dispone – pagamenti immediati e regolari.
Notevole è, d’altra parte, lo sforzo industriale messo in campo da Usa, Gran Bretagna e Canada per sostenere l’Armata Rossa e le popolazioni civili dell’Urss: nel corso del conflitto, Stalin riceve oltre 9.000 carri armati, più di 12.000 aeroplani, 434.000 veicoli, 5.500.000 paia di calzature senza contare le armi leggere e pesanti, centinaia di migliaia di uniformi, derrate alimentari, medicinali e materie prime da lavorare direttamente in Unione Sovietica.
A causa di questo enorme sistema di scambi, durante quell’ultimo, fatale viaggio l’Edinburgh ha a bordo circa 4 tonnellate e mezzo d’oro puro sotto forma di 465 lingotti stipati in 93 casse di legno collocate nel deposito corazzato della nave dove trovano spazio anche le munizioni e i siluri. Quei lingotti, tuttavia, sono destinati a non arrivare a destinazione come pronostica uno dei marinai addetti al carico quando, notando i timbri sulle cassette, esclama rivolgendosi al suo superiore: “Sarà un brutto viaggio, Sir. Questo è oro russo, è sporco di sangue”.
Il 30 aprile 1942, infatti, meno di due giorni dopo l’uscita dalla baia di Kola la nave viene attaccata dal sottomarino tedesco U–456, comandato dal capitano Max Martin Teichert. Colpito da un siluro, l’incrociatore inizia ad imbarcare acqua ma l’equipaggio riesce a tamponare la falla e a rimettere in funzione alcune caldaie. Poco dopo, però, Teichert lancia un secondo siluro che colpisce la chiglia dell’incrociatore provocando gravi danni alla struttura portante dello scafo.
A questo punto, il comandante inglese decide di tentare il rientro a Murmansk, ma è ormai tallonato dai cacciatorpediniere e dagli aerosiluranti tedeschi che, al largo della cosiddetta Isola degli orsi attaccano di nuovo la nave provocando l’arresto delle turbine superstiti.
Bloccato in mezzo all’Oceano Artico, l’Edinburgh è ormai in balìa della Kriegsmarine; il comandante Faulkner non ha altra scelta che ordinare di abbandonare la nave e agli altri caccia inglesi del convoglio di silurarla per impedirne la caduta in mani nemiche. Tocca alla torpediniera Foresight dare il colpo di grazia alla “cassaforte galleggiante” che si inabissa ponendo tra i nazisti e il proprio prezioso tesoro quasi 250 metri di fondale oceanico. Con i lingotti scompaiono anche due ufficiali e 56 marinai, mentre il resto dell’equipaggio viene tratto in salvo.
A puntare i riflettori sul relitto è la Ridson Beazley Ltd. che, nel 1954, inizia a trattare i diritti di recupero con il governo di Londra; la situazione politica, le tensioni della Guerra Fredda e la possibilità di incidenti diplomatici con L’Urss, tuttavia, fanno arenare il progetto. Poco dopo, è il 1957, l’Edinburgh viene riclassificato dagli inglesi come “relitto di guerra” il ché complica il quadro giuridico legato ad un suo eventuale recupero e pone termine, di fatto, ad ogni tentativo di organizzare una spedizione che riporti a galla le tonnellate d’oro che la nave conserva.
Solo verso la fine degli anni ‘70 l’interesse per la “cassaforte sommersa” in fondo al Mare di Barents riprende a crescere e anche Londra si mostra sempre più impaziente di recuperare l’oro che, oltre a rappresentare una preziosa riserva per le finanze di Sua Maestà, appare sempre di più esposto al pericolo di razzie da parte di cercatori non autorizzati e, non ultimo, ad un tentativo di recupero sovietico, nelle cui acque territoriali ancora si trova.
Nei primi anni ‘80, una compagnia di recuperi subacquei chiamata Jessop Marine, di proprietà dell’ex commando di marina Keith Jessop, vince la gara d’appalto per i diritti di recupero del relitto dell’Edinburgh. Tra i numerosi concorrenti in gara, ciò che fa pendere a favore di Jessop l’ago della bilancia è il metodo proposto per l’accesso al relitto e per il recupero dei lingotti, da effettuare con sofisticati macchinari da taglio invece che con l’uso di esplosivi.
Nell’aprile del 1981, la nave da ricerca Dammtor inizia a scandagliare il Mare di Barents e, dopo dieci giorni, individua con esattezza la tomba sottomarina dell’incrociatore in una posizione stimata a 72° latitudine nord e 35° longitudine est e ad una profondità di circa 800 piedi (245 metri). Usando una videocamera vengono realizzate anche riprese del relitto in modo da documentarne le condizioni e permettere a Jessop di pianificare al meglio il recupero.
Il 30 agosto del 1981 una nave appoggio si porta sul posto ed inizia la seconda fase del lavoro, quella che consiste nella ricerca dei lingotti e nel loro effettivo recupero. Prima che si ottengano dei risultati, tuttavia, passano diversi giorni e alcuni sommozzatori rimangono feriti nel tentativo di entrare nel relitto finché, finalmente, il 15 settembre, si riesce a penetrare nella camera munizioni dell’incrociatore e a recuperare il primo lingotto. L’euforia è alle stelle e, a questo punto, non rimane che procedere rapidamente per riportare in superficie il massimo numero di lingotti prima che le tempeste dell’inverno subpolare rendano impossibili le immersioni. Si lavora a ritmo frenetico e così, giorno dopo giorno, il tesoro dell’ Edinburgh ritorna alla luce, in lingotti così brillanti come se da quel lontano 1942 non fosse passato un solo giorno.
Il 7 ottobre, però, il sogno di Jessop si interrompe: il cattivo tempo, infatti, li costringe ad interrompere il recupero. A quel giorno, tuttavia, ben 431 dei 465 lingotti sono già stati recuperati e la missione può ben dirsi compiuta. Il valore del metallo prezioso, calcolato all’epoca del recupero, è salito ad oltre 45 milioni di sterline e permette, oltre al pagamento delle spese sostenute per la spedizione, l’arricchimento del suo ideatore e degli altri partecipanti al progetto.