Era dal lontano 2009, in piena crisi finanziaria internazionale, che la Repubblica Popolare Cinese non diramava ufficialmente cifre relative alle proprie riserve auree statali. Non poca è stata, perciò, la sorpresa quando la People’s Bank of China (Bpoc) ha diffuso, qualche giorno fa, una stima aggiornata in merito ai propri quantitativi strategici di metallo prezioso.
Ebbene, come riporta Koos Jansen in ''BullionStar'' (leggi qui l'articolo, rilanciato da numerosi portali internazionali del settore), Pechino è passata è ufficialmente è dal detenere 1.054 tonnellate d'oro alle attuali 1.658, una cifra molto più contenuta rispetto a quelle, pur sempre ipotetiche, che si attendevano gli analisti del settore e che colloca il gigante asiatico al quinto posto nel mondo dopo Usa, Germania, Italia e Francia.
Lo scetticismo piovuto da più parti dipende in prima battuta da un dato: se infatti sommiamo le importazioni nette d'oro effettuate dalla Cina tra 2010 e 2014 (3.967 tonnellate, certificate sia dalla China Gold Association che da organismi internazionali) con le 1.979 tonnellate di produzione interna, si ottiene un totale di ben 5.964 tonnellate di metallo prezioso, un 'giro' che si giustifica solo alla luce di una frenetica e crescente richiesta privata, non soltanto per gioielleria ma anche per effettiva riserva di valore, sotto forma di monete e lingotti.
Alla Pboc sarebbero dunque andate 604 tonnellate d'oro, ma ciò che è effettivamente finito nei forzieri della Banca centrale in questi ultimi anni, tuttavia, non appare chiaro dal momento che tutto ciò che il mondo 'percepisce' del mercato cinese nel settore sono
(1) le esportazioni di altri paesi verso la Cina (che devono passare necessariamente per lo Shanghai Gold Exchange) e
(2) l'offerta mineraria domestica verso l'estero (che, allo stesso modo, deve avvenire sulla piazza di Shanghai).
La People's Bank of China, invece, non acquista attraverso lo Sge nè le sue acquisizioni e spedizioni di metallo prezioso lasciano traccia nei rapporti doganali globali. L'ipotesi di Jansen e di altri analisti è perciò che la Banca centrale di Pechino abbia operato in dollari sui mercati internazionali, in questi anni, per rifornirsi d'oro in modo 'discreto' e alleggerire così le proprie riserve di valuta statunitense a favore di un asset ben più concreto; a seguito di ciò, e della crescente richiesta di metallo prezioso da parte di un bacino sempre più ampio di clienti privati, le riserve auree detenute dal paese asiatico si attesterebbero (tra produzione mineraria locale, importazioni 'certificate', riserve statali e gioielleria) poco sotto le 14.000 tonnellate complessive.